PRIMA SEZIONE CIVILE
In composizione monocratica, nella persona del Giudice designato dott.ssa Silvia
Albano, nel procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. iscritto al n. 50935 del ruolo
generale dell’anno 2014, vertente
TRA
XXX XXX e XXX XXX, , rappresentati e difesi dagli Avv.ti ….
- ricorrenti -
E
XXX XXX e XXX XXX, , in proprio ed in qualità di legali rappresentanti dei figli minori
XXX XXX e XXX, nati a, rappresentati e difesi dagli Avv.ti ….
- resistenti -
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso ex
lege dall’Avvocatura dello stato
- resistente -
COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti
….. dell’Avvocatura Comunale
- resistente -
con l’intervento del PUBBLICO MINISTERO in sede, in persona della d.ssa Francesca
Loy
ha emesso la seguente
O R D I N A N Z A
Con ricorso ai sensi dell’art 700 c.p.c. i sig.ri XXX e XXX, in proprio ed asseritamente in
rappresentanza dei gemelli nascituri, hanno chiesto venisse ordinato ai sigg.ri XXX e
XXX di fornire tutte le informazioni relative allo stato di salute dei nascituri nonché a
dove e quando avverrà il parto affinché possano formare l’atto di nascita dal quale
risultino genitori, nonché di consegnare i gemelli al momento della nascita ai ricorrenti
quali genitori genetici; ordinarsi al Ministero dell’Interno di diffidare tutti gli Ufficiali dello
stato civile presso le anagrafi italiane dal formare l’atto di nascita dei due gemelli
indicando quali genitori i Signori XXX e XXX in contrasto con la verità biologica, in
quanto i genitori dei nascituri sarebbero i signori XXX e XXX.
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Si sono costituiti all’odierna udienza i resistenti XXX e XXX esponendo che il 3
agosto erano nati i figli frutto dell’impianto dell’embrione e chiedendo che il ricorso
venisse dichiarato inammissibile per la sopravvenuta mancanza di interesse in ordine
alle domande relative all’iscrizione anagrafica dei figli ed alle informazioni sulla data del
parto; nonché per la mancata indicazione della domanda di merito da proporsi. Nel
merito chiedevano il rigetto del ricorso in quanto il rapporto di filiazione si era
legittimamente costituito secondo quanto previsto dal nostro ordinamento, pienamente
confacente all’interesse dei minori a mantenere il legame con la madre gestante, e
trovando applicazione le norme che disciplinano la fecondazione eterologa.
Il Pubblico Ministero è intervenuto chiedendo il rigetto del ricorso in quanto era
interesse dei minori non essere separati dalla madre biologica e trovando piena
applicazione la norma che prevede che la madre sia colei che ha partorito (art 269
comma 3 c.c.).
* * *
Preliminarmente deve rilevarsi che avendo la nascita avuto luogo, le domande
relative alla richiesta di informazioni sullo stato di salute dei nascituri e sulla
sospensione della loro iscrizione anagrafica alla nascita sono state rinunciate dai
ricorrenti.
I ricorrenti hanno in udienza modificato la domanda rinunciando alla richiesta di
consegna dei neonati e chiedendo che venisse disposta la loro collocazione in una
struttura idonea, separandoli dai resistenti, od in subordine venisse garantito il diritto di
visita dei genitori genetici onde poter assicurare la costruzione di un legame affettivo
con i minori tale da non pregiudicare il patrimonio di affetti costruito in questo caso
anche con i ricorrenti, nel caso venisse riconosciuto il loro diritto quali legittimi genitori.
Ciò previa richiesta di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art 269 c.c.
nella parte in cui prevede che la madre sia colei che partorisce il figlio, senza eccezioni, dell’art
239 comma 1 c.c. nella parte in cui prevede la possibilità di reclamare lo stato di figlio solo in
caso di supposizione di parto o sostituzione di neonato, dell’art 234 bis c.c. nella parte in cui
viene limitata la legittimazione a proporre l’azione di disconoscimento di paternità, in relazione
all’art 263 c.c. che invece prevede che l’azione possa essere proposta da chiunque vi abbia
interesse.
La difesa dei resistenti ha fatto rilevare l’incompatibilità con il procedimento d’urgenza
della richiesta di sollevare questione di costituzionalità ed ha chiesto il rigetto anche
delle domande come modificate in udienza.
La domanda di merito cui il provvedimento di urgenza dovrebbe essere strumentale
deve ritenersi quella rivolta all’accertamento della paternità e maternità naturale, previa
dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme indicate al fine di consentire da
parte dei ricorrenti le azioni dirette a porre nel nulla lo status acquisito dai due gemelli
con la nascita.
Dalla modifica dell’oggetto del presente giudizio, conseguente alla nascita, deve
ritenersi che il Ministero dell’Interno non sia più legittimato passivamente, mentre il
Comune di Roma non lo era ab origine in quanto nella gestione dell’Anagrafe agisce
come delegato del Ministero.
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La vicenda ha ad oggetto lo scambio di embrioni avvenuto presso l’Ospedale Pertini
in Roma, al quale le due coppie si erano rivolte per ricorrere alle tecniche di
procreazione medicalmente assistita, attraverso la creazione di embrioni in vitro con gli
ovociti ed il seme delle coppie. Per un fatale errore umano gli embrioni formati col
patrimonio genetico dei ricorrenti sono stati impiantati nell’utero della resistente e
viceversa. L’impianto dell’embrione nell’utero della sig.ra XXX non è andato a buon
fine, tanto che la gravidanza non è neppure iniziata, mentre è andato a buon fine
l’impianto nell’utero della sig.ra Xxx e la gravidanza è giunta a termine con la nascita di
due gemelli, il cui patrimonio genetico appartiene ai ricorrenti.
La vicenda ha suscitato un dibattito tra i giuristi già prima di approdare davanti al
giudice, quando i mezzi di informazione hanno dato notizia del tragico errore. Su di
essa si è pochi giorni orsono (l’11 luglio 2014) pronunciato anche il Comitato Nazionale
di Bioetica, senza prendere alcuna posizione sui criteri etici e biogiuridici che
dovrebbero ispirare il bilanciamento e la composizione degli interessi in conflitto.
La peculiarità della vicenda, oltre che per le drammatiche implicazioni umane di tutti i
soggetti coinvolti, discende dal fatto che il diritto non contempla e non disciplina in
modo esplicito la fattispecie in esame.
Già tali considerazioni dovrebbero indurre a dubitare di poter affrontare tali tematiche
nel corso di un procedimento cautelare essendo quantomeno dubbia, stante la natura
assolutamente controversa di qualsiasi soluzione possa venire indicata, la sussistenza
del fumus bonis iuris del diritto azionato.
Il provvedimento cautelare richiesto sarebbe, infatti, strumentale all’azione di merito
di dichiarazione giudiziale di maternità e paternità naturale, che sulla base dell’attuale
normativa non potrebbe essere proposta dai ricorrenti. Infatti allo stato sono i resistenti
i genitori legittimi dei nati, sulla base delle norme che regolano la filiazione e la prova
del possesso di stato, mentre i ricorrenti non possono proporre l’azione di merito
invocata (azione di dichiarazione giudiziale di maternità e paternità naturale), ostandovi
il possesso di stato attuale dei nati e non essendovi i presupposti per la contestazione
dello stato di figlio o la legittimazione a proporre l’azione di disconoscimento di
paternità.
Il provvedimento richiesto non potrebbe, quindi, essere concesso. L’unica strada
sarebbe quella di sollevare la questione di costituzionalità delle norme che, però, non si
ritiene ammissibile e rilevante in quanto contrastante con gli interessi dei minori alla
stabilità del loro status e con il loro diritto a vivere con quella che è la propria famiglia
secondo l’ordinamento vigente.
La rilevanza deve, infatti, essere valutata in relazione al caso concreto ed al concreto
bilanciamento dei diritti coinvolti.
La fattispecie non può essere sic et simpliciter ricondotta alla fecondazione
eterologa, il cui divieto è stato recentemente dichiarato costituzionalmente illegittimo
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014.
Infatti, manca, almeno ab origine, la volontà di sottoporsi a tale tecnica di PMA ed il
preventivo consenso informato, anche se non può ritenersi priva di rilevanza, come si
vedrà, la successiva consapevolezza di quanto accaduto e la decisione di portare
comunque avanti la gravidanza.
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Non sono state nel caso di specie, per ovvi motivi, rispettate le procedure previste
dall’art 6 della Legge 40, ritenuto dalla Corte Costituzionale applicabile anche alle
tecniche di fecondazione eterologa, in quanto le parti avevano prestato il consenso
informato alle sole tecniche di fecondazione omologa.
Né può ritenersi la fattispecie concretizzi un’ipotesi di “maternità surrogata”,
espressamente vietata nel nostro ordinamento dal comma 6 dell’art. 12 della legge n.
40 del 2004, mancando del tutto il consenso e la volontarietà del comportamento sia
della madre genetica che della madre biologica. E’ sopravvenuto, infatti, il solo
consenso dei genitori genetici che hanno introdotto il presente giudizio.
Ci si trova di fronte un’eterologa “da errore” (la madre porta in grembo embrioni
geneticamente non suoi né del marito o del partner) o una surroga materna “da
errore” (i genitori genetici producono embrioni che sono impiantati nell’utero di un’altra
donna che li porta in gestazione) con una procedura priva di consenso, il che
sembra generare una situazione di indeterminatezza in merito alla maternità e
paternità (v. Commissione Nazionale di Bioetica, 11.7.2014 cit.) a fronte di un vuoto
legislativo che dovrebbe venire colmato in via interpretativa.
Il nostro sistema normativo prevede che “la maternità è dimostrata provando la identità
di colui che pretende di essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume
essere madre” (art 269 comma 3 c.c.).
Tale norma è stata introdotta con la riforma del 1975 quando ancora le tecniche di
procreazione assistita erano agli albori, ma è pur vero che la sua formulazione è stata
mantenuta dal legislatore della riforma della filiazione di cui al D.Lgs. n. 154 del 2013.
Il legislatore della riforma, inoltre, nel sostituire la norma di cui all’art 239 c.c., ha
previsto la possibilità di reclamare, o contestare, lo stato di figlio (art 240 c.c.), solo in
caso di sostituzione di neonato o supposizione di parto.
Non può negarsi, quindi, la volontà del legislatore, molto recente, di mantenere quale
principio cardine dell’ordinamento la maternità naturale legata al fatto storico del
parto.
Nel caso in cui la donna gestante, unita in matrimonio, dichiari nell’atto di nascita il
figlio come nato durante il matrimonio, il marito ne diviene il padre legale (art. 231 c.c.,
come modificato dal D.Lgs n. 154/2013 che ha soppresso l’inciso “concepito” durante il
matrimonio). Peraltro, in presenza dello status di figlio di altra persona (il marito della
donna gestante), il padre genetico non può promuovere l’azione di disconoscimento e
non può riconoscere il figlio.
La volontà del legislatore in ordine ai limiti all’azione di disconoscimento di paternità è
rimasta ferma, nonostante nella disciplina previgente numerose siano state le questioni
di legittimità sollevate in ordine alla disparità di trattamento tra figli nati in costanza o
fuori dal matrimonio in relazione alla diversa disciplina dell’azione di impugnazione del
riconoscimento.
Tutte sempre rigettate dalla Corte Costituzionale affermando che la determinazione
dei soggetti legittimati a proporre l'azione di disconoscimento della paternità è una
scelta insindacabile del legislatore che ha ritenuto di riservare ai soli soggetti
direttamente interessati, e cioè ai membri della famiglia legittima, il potere di decidere
circa la prevalenza della verità "biologica" o della verità "legale": una innovazione, che
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attribuisse direttamente la legittimazione ad agire a soggetti privati estranei alla
famiglia legittima, quale è il presunto padre naturale, rappresenterebbe la scelta di un
criterio diverso, legato ad una ulteriore evoluzione della coscienza collettiva, che solo il
legislatore può compiere. Mentre la Corte di Cassazione ha sempre negato al presunto
padre naturale sia la possibilità di intervenire nel giudizio di disconoscimento che di
proporre opposizione di terzo ex art 404 c.p.c. avverso la sentenza emessa nel giudizio
di disconoscimento, asserendo che lo stesso era “portatore di un interesse di mero
fatto”.
In ogni caso, prescindendo dall’annoso dibattito sul punto, non si ritiene che nella
fattispecie in esame, effettivamente diversa da quelle esaminate dalla Corte, il padre
genetico abbia un interesse giuridicamente rilevante da far valere, distinto da quello
della madre genetica, per cui le questioni devono essere congiuntamente esaminate,
tenendo conto della peculiarità del caso concreto, avendo sempre come riferimento
l’interesse del minore, criterio guida ai fini del bilanciamento degli interessi in
conflitto.
Anche per la figura paterna a seguito delle tecniche riproduttive con donazione di
gamete può venire meno la paternità genetica a favore di una paternità legale.
Sotto l’aspetto sia etico sia giuridico nell’individuazione della maternità,come della
paternità, a seguito della PMA eterologa, acquisisce, dunque, rilievo il concetto di
volontarietà del comportamento necessario per la filiazione, l’assunzione di
responsabilità in ordine alla genitorialità, così da attribuire la maternità e la paternità a
quei genitori che, indipendentemente dal loro apporto genetico, abbiano voluto il figlio
accettando di sottoporsi alle regole deontologiche e giuridiche che disciplinano la PMA;
ne consegue la regola che coloro che hanno dato un consenso informato alla
procedura siano i genitori dei nati e che non è consentito il disconoscimento della
paternità e dell’anonimato della madre (art. 9, commi 1 e 2).
Il legislatore della riforma del 2013, nel solco dell’evoluzione del pensiero della
migliore dottrina e dell’elaborazione giurisprudenziale, ha posto l’accento sul concetto
di responsabilità genitoriale, come caratterizzante il rapporto di filiazione, eliminando
dal nostro ordinamento l’istituto della potestà genitoriale.
Il rapporto di filiazione - ed il conseguente diritto all’identità personale - si è andato
sempre più sganciando nel nostro ordinamento dall’appartenenza genetica, potendosi
rinvenire, grazie anche al rilievo “rivoluzionario” delle nuove tecniche riproduttive,
diverse figure genitoriali; “la madre genetica” (la donna cui risale l’ovocita fecondato), “la
madre biologica” (colei che ha condotto la gestazione), e la madre sociale (colei che
esprime la volontà di assumere in proprio la responsabilità genitoriale); il padre genetico
ed il padre sociale. Figure che possono anche di fatto non coincidere.
Mentre il concetto di famiglia si è andato, dal canto suo, sempre più sganciando dal
dato biologico e genetico degli appartenenti, venendo concepita sempre più come
luogo degli affetti e della solidarietà reciproca, prima comunità ove si svolge e sviluppa
la personalità del singolo; d’altra parte millenaria filosofia dell’uomo ha identificato nella
famiglia l’archetipo della comunità sociale.
Tutte le più recenti pronunce dei giudici interni o europei che si sono trovate a dover
dirimere interessi in conflitto relativi al rapporto di filiazione, sono fondate sulla
valutazione del dato concreto del legame affettivo familiare ed hanno come punto di
riferimento l’interesse del minore (secondo quanto stabilito dalla Convenzione sui diritti
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dell’Infanzia approvata dalle Nazioni Unite il 20.11.1989 e ratificata in Italia dalla L. n.
176/91) ed il principio di “autoresponsabilità” che deve sottendere al rapporto
genitoriale, che trova il proprio fondamento nell’obbligo di solidarietà sancito dall’ art. 2
della Costituzione, mettendo, quindi, seriamente in discussione il principio del carattere
necessariamente biologico o genetico del rapporto di filiazione.
A partire dalla decisione della Corte di Cassazione sul divieto di disconoscimento di
paternità da parte del marito della coppia che ebbe a dare il consenso
all’inseminazione eterologa della moglie (sentenza n. 2315 del 1999 - che ha sovvertito
il dogma secondo il quale principio della verità biologica governasse la materia del
rapporto di filiazione), divieto recepito nella L. 40/2004, per finire con le recenti
sentenze gemelle della CEDU del 26 giugno 2014, che hanno condannato la Francia
per non avere trascritto il rapporto di filiazione derivante da un contratto di maternità
surrogata stipulato all’estero. Anche in queste sentenze della Corte europea l’accento
non è stato posto sul dato genetico del rapporto di filiazione o su un eventuale diritto
dei genitori genetici, ma sul diritto del minore a mantenere il legame familiare
consolidatosi nel tempo (in questo senso anche la sentenza della Corte d’Appello di
Bari del 13 febbraio 2009, estensore Labellarte).
…….
Il tutto sulla base del diritto interno ed internazionale: la Convenzione sui diritti del
fanciullo stipulata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia
con legge 27 maggio 1991, n. 176; la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei
fanciulli, adottata dal Consiglio d'Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e
resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77; la Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo;
non diverso è l'indirizzo dell'ordinamento interno, nel quale l'interesse morale e
materiale del minore ha assunto carattere di piena centralità, specialmente dopo la
riforma attuata con legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), dopo
la riforma dell'adozione realizzata con la legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina
dell'adozione e dell'affidamento dei minori), come modificata dalla legge 28 marzo
2001, n. 149, cui hanno fatto seguito una serie di leggi speciali che hanno introdotto
forme di tutela sempre più incisiva dei diritti del minore, e da ultimo dalla riforma della
filiazione di cui al D.Lgs n. 154/2013.
Il legislatore italiano della riforma della filiazione, infatti, nel rivedere la disciplina delle
azioni di disconoscimento di paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto
di veridicità ha previsto un termine tombale di cinque anni per il loro esercizio, anche
nei casi di sospensione previsti dalla legge, dando prevalenza all’interesse del minore
alla stabilità del rapporto di filiazione ed a non recidere i legami familiari e di affetti che
ne fondano l’identità, sulla verità genetica o biologica del rapporto di filiazione.
Il legislatore ha accolto il principio in base al quale la tutela del diritto allo status ed
alla identità personale può non identificarsi con la prevalenza della verità genetica.
Nel bilanciamento degli interessi in conflitto, prevedendo un termine di decadenza
“tombale” per l’esercizio dell’azione, il legislatore delegato ha inteso mutare
radicalmente il principio fondante la precedente normativa (v. in particolare la disciplina
dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità), lasciando prevalere
sull’interesse pubblico alla verità del rapporto di filiazione, l’esigenza di non prolungare
indefinitamente la durata dell’incertezza dello stato di figlio. Mentre ha lasciato il figlio
comunque arbitro del proprio status, essendo per lui l’azione imprescrittibile.
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Il diritto della personalità costituito dal diritto all’identità appare sempre più sganciato
dalla verità genetica della procreazione e sempre più legato al mondo degli affetti ed al
vissuto della persona cresciuta ed accolta all’interno di una famiglia.
Se è vero che la famiglia è sempre più intesa come comunità di affetti piuttosto che
come istituzione posta a tutela di determinati valori, incentrata sul rapporto concreto
che si instaura tra i suoi componenti, ne deriva che al diritto spetta di tutelare proprio
quei rapporti, ricercando un equilibrio che permetta di bilanciare gli interessi in conflitto,
avendo sempre come riferimento il prevalente interesse dei minori coinvolti.
Non può più ragionevolmente ritenersi che il principio della verità genetica nei
rapporti di filiazione sia sovraordinato rispetto agli altri interessi in conflitto.
Nel caso di specie due coppie intendono assumersi la responsabilità genitoriale sui
nascituri sulla base di due diversi titoli genitoriali, quello genetico e quello biologico, di
chi ha portato avanti la gestazione.
Non si rinvengono motivi nel caso di specie per sollevare questione di costituzionalità
delle norme sulla filiazione che hanno portato al riconoscimento dei resistenti quali
genitori legittimi dei nati in quanto si ritiene che esse rispondano pienamente, nel caso
concreto, agli interessi dei minori coinvolti.
La riforma della filiazione ha mantenuto il principio in base al quale è il parto che
determina la maternità naturale, nella piena consapevolezza, si ritiene, dei progressi
scientifici relativi alle tecniche di procreazione e della possibilità che la madre biologica
od “uterina” potesse non identificarsi con la madre genetica (la dottrina ne discute fin
dagli anni 80, quando in parlamento erano in gestazione i diversi disegni di legge sulla
procreazione medicalmente assistita, ponendosi espressamente il problema della
prevalenza della madre genetica o della madre biologica in caso di conflitto).
Il riferimento all’embrione, quale prodotto del concepimento, perde di rilevanza anche
nella norma relativa alla presunzione di paternità laddove sparisce il riferimento al figlio
“concepito” durante il matrimonio, facendosi esclusivo riferimento al figlio nato nel
matrimonio.
Il legislatore sembra, quindi, aderire a quella corrente di pensiero che ritiene che è
nell’utero materno che la vita si forma e si sviluppa.
Inoltre nelle ipotesi nelle quali si è data rilevanza alla maternità genetica in luogo di
quella biologica (v. C.A. Bari e sentenze CEDU citate), si trattava di un contratto che,
sebbene vietato dall’ordinamento interno, prevedeva la sussistenza del pieno
consenso di tutti i soggetti coinvolti, la madre genetica si era assunta in pieno la
responsabilità genitoriale al contrario della madre uterina che aveva consegnato i figli
alla nascita e che tale responsabilità non intendeva proprio assumersi. In Tali pronunce
si è, comunque, data rilevanza ai rapporti familiari concretamente instaurati, al principio
di auto- responsabilità nel rapporto di filiazione ed al superiore interesse del minore.
In questo caso, riconoscendo la prevalenza della madre genetica e quindi ritenendo
rilevante la questione di costituzionalità sollevata, si attribuirebbe legittimità giuridica ad
una coattiva maternità di sostituzione, con la rinuncia imposta ad un figlio che pure la
madre biologica ha condotto alla vita. Soluzione che è totalmente inconciliabile con il
diritto della donna che ospita il feto all’intangibilità del suo corpo e, pertanto, ad
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assumere ogni decisione in ordine alla sua gravidanza, nonché gravemente lesiva
della dignità umana della gestante.
La soluzione che si ricava in via interpretativa dall’applicazione al caso di specie del
comma 3 dell’art 269 c.c. e dall’art 231 comma 1 c.c. è quella che meglio si concilia a
parere di questo giudicante con gli interessi dei minori coinvolti, anche in relazione al
loro diritto ad essere cresciuti nella famiglia, intesa come comunità degli affetti, che li
ha accolti.
La letteratura scientifica è unanime nell’indicare come sia proprio nell’utero che si
crea il legame simbiotico tra il nascituro e la madre. D’altro canto è solo la madre
uterina che può provvedere all’allattamento al seno del bambino.
Non può, pertanto, non ritenersi sussistente un interesse dei minori al mantenimento
di tale legame, soprattutto alla luce del fatto che i bambini sono già nati e nei loro primi
giorni di vita deve ritenersi abbiano già instaurato un significativo rapporto affettivo con
entrambi i genitori e sono già inseriti in una famiglia.
Si è detto da parte della dottrina che tale soluzione esporrebbe i minori ai rischi
connessi alla non applicabilità nel caso di specie delle garanzie previste dall’art 9 della
L. n. 40/2004 per la fecondazione eterologa (ove la madre non può chiedere di non
essere nominata ed il padre non può effettuare l’azione di disconoscimento di paternità
o di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità), esponendo il figlio,
all’incertezza del proprio status, in relazione alla paternità od alla possibilità che la
madre alla nascita dichiari di non essere nominata.
Posto che tale ultima ipotesi non può ricorrere in quanto i figli sono già nati, il
concreto rischio che potrebbe riguardare solo l’esposizione all’azione di
disconoscimento di paternità nel ristretto termine previsto dalla norma riformata; posto
che è noto che il marito della gestante non è il padre genetico dei nascituri.
Ritiene il giudicante che in via interpretativa siano, però, applicabili gli artt. 6 e 9 della
legge 40/2004, essendo pienamente applicabili nel caso di specie i principi che hanno
indotto la Corte di Cassazione nel 1999 a ritenere non legittimato a proporre l’azione di
disconoscimento di paternità chi avesse dato il consenso alla fecondazione eterologa
ed alcuni giudici di merito (tra cui questo Tribunale con sentenza del 5 ottobre 2012) a
ritenere non ammissibile l’impugnazione del riconoscimento da parte di chi lo abbia
effettuato consapevole della sua falsità.
Non può infatti attribuirsi a chi abbia consapevolmente deciso di assumersi la
responsabilità di accogliere un soggetto come figlio, consapevole di non esserne il
genitore genetico, di poter porre nel nulla uno status che ha contribuito
consapevolmente a formare.
Una diversa interpretazione degli artt. 6 e 9 della L. 40 si porrebbe in contrasto con
gli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Deve, pertanto, ritenersi che il padre, che ha prestato il proprio consenso alla
gravidanza ed all’iscrizione anagrafica del figlio come proprio, non sarebbe legittimato
a proporre l’azione di disconoscimento di paternità ed ai sensi dell’art 6 la madre
uterina ed il marito devono ritenersi i genitori dei nascituri.
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Sarebbe, infatti, in contrasto con i principi fondanti del nostro ordinamento giuridico,
sia di fonte interna che internazionale, l’attribuzione dell’azione al soggetto che avesse
posto in essere, o concorso a porre in essere, la situazione giuridica per la cui
modificazione tale azione è apprestata (situazione che potrebbe essere ricondotta
all’abuso del diritto – v. Cass. Sezioni Unite, sentenza n. 23726 del 2007).
L’argomento, poi, relativo al diritto di ogni persona a conoscere le proprie origini non
è pertinente al caso di specie, trattandosi di un diritto ad essere informati che non ha
riguardo ai principi che governano l’attribuzione dello status relativo al rapporto di
filiazione.
Ritiene, quindi, questo giudice che le questioni di costituzionalità sollevate non siano
né rilevanti né fondate.
Il ricorso deve essere rigettato per carenza del fumus boni iuris del diritto azionato.
Resta il dramma umano dei genitori che si erano rivolti all’ospedale per trovare
soddisfazione al loro diritto alla procreazione ed a formare una famiglia, che potrà
trovare tutela solo risarcitoria.
Sussistono giusti motivi in considerazione dell’assoluta novità e della natura
controversa delle questioni trattate, per dichiarare le spese di lite integralmente
compensate tra tutte le parti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
dichiara le spese di lite integralmente compensate tra le parti.
Così deciso in Roma, l’8 agosto 2014
Il Giudice designato
Note a commento
(avv Maria Teresa de Scianni)
Senza alcun dubbio credo che l’ordinanza appena trascritta sia tra le più innovative e
rivoluzionarie degli ultimi tempi e che ho avuto modo di leggere, a poche ore dalla sua
pubblicazione, in quanto diffusa in rete nell’ambito della mailing list degli Osservatori sulla
Giustizia, dalla stessa dr.ssa Albano, che l’ha sottoscritta.
Da avvocato di famiglia non più tanto “giovane”, sento di poter riconoscere in essa tutta la
drammatica difficoltà nella quale la nostra società sta conducendo il legislatore e l’interprete delle
leggi.
La cultura e il concetto stesso di famiglia si è rinnovato ed è radicalmente cambiato non
costituendo più, nella sua evoluzione, il migliore ambiente in cui il minore debba poter crescere e
sviluppare la propria personalità e le proprie capacità o, almeno, non è il solo.
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Casi come quello in esame sono possibili proprio in quanto un’ulteriore apertura verso la
“genitorialità surrogata” è stata prevista grazie ad una maggiore flessibilità e duttilità delle norme
(fino a poco tempo fa più rigorose) sulla PMA (procreazione medicalmente assistita).
Questa ordinanza è, pertanto, la prima decisione, forse, di una lunga serie in quanto se essa
nasce dalla necessità di “riparare ad un errore umano”, pur tragico, si proporranno non poche
occasioni di necessaria verifica da parte dell’Autorità Giudiziaria rispetto a ben altre fattispecie che,
di certo, saranno determinate anche da volontà precise o diritti “vantati o pretesi come tali”, sempre
in forza di una lacunosità delle norme vigenti e di una velocità di trasformazione dei modelli e (mi
sia concesso parlarne) del comune concetto di “morale”, che di comune non ha quasi più niente!
Per quel che può valere, plaudo personalmente alla scelta interpretativa della dr.ssa Albano che
ha fatto un’attentissima analisi del dato normativo ma anche delle questioni più legate all’interesse
del minore che, a quanto pare, trovano riscontro altresì in una valutazione scientifica di recente
affermazione.
Non sarà stato facile arrivare a tale decisione di certo “sofferta” ma come tale ancor più preziosa
e che credo si possa ritenere sostanzialmente giusta, anche se non risulta indifferente il dramma
dei genitori “genetici” dei gemelli nati, soprattutto in considerazione dell’errore e quindi
dell’assoluta mancanza di volontà di “donare” i propri embrioni e che, in quanto detti embrioni
sono il frutto dell’unione dei propri gameti e ovuli (rispettivamente di quel padre e di quella madre),
avranno molta difficoltà a ritenerli legittimamente “figli di altra coppia”, benché questa (e
naturalmente in particolare la madre che l’ha ospitati nel proprio utero) abbiano contribuito a fornire
anche buona parte delle informazioni e delle caratteristiche che quei figli avranno nel corso della
loro vita.
Senza alcun dubbio s’è confermato il dato per cui: la tutela del diritto allo status e all’ identità
personale può non identificarsi con la prevalenza della verità genetica e che : la volontà del
legislatore è quella di mantenere quale principio cardine dell’ordinamento la maternità naturale
legata al fatto storico del parto: madre è colei che partorisce il figlio!
E’ su tali fondamentali principi che bisogna soffermare la propria attenzione nella valutazione
della decisione in commento e dell’interpretazione giuridica più vicina alla volontà del legislatore.
Non è di certo facile la soluzione ad un caso del genere e, in certa misura, direi che con
l’evoluzione giuridica e l’acquisizione di modelli provenienti da oltralpe, in parte disancorati da
culture classiche come la nostra, ci siamo complicati la vita e probabilmente : “non finirà qui”… ne
vedremo ancora delle belle tra unioni di fatto tra omosessuali e uteri in affitto (una realtà che non
mancherà, a breve, di riguardare anche noi).
Tuttavia è sempre prezioso e lodevole il contributo di idee e di coscienza che deriva dalla
speculazione e dall’interpretazione di un giurista attento e scrupoloso come il giudice estensore di
questa ordinanza il cui lavoro e sforzo interpretativo può costituire un valido esempio di come si
debbano affrontare tematiche tanto delicate e fondanti per il nostro diritto e per il futuro della nostra
società.
Resta l’amaro calice dell’interpretazione giuridica che, pur condivisibile, prende il posto del
comune e più banale senso della giustizia che porterebbe ad attribuire i figli a coloro che li hanno
concepiti e non piuttosto “ospitati”, soprattutto in considerazione della “nolontà” (mancanza di
volontà) di farne dono per la fecondazione “eterologa”, mai richiesta da entrambe le coppie!
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L’errore sarà probabilmente risarcito in termini economici ma non sarà facile risarcire e far
dimenticare, ad una coppia di genitori, il senso di smarrimento e disorientamento rispetto ad una
risposta, logica, giuridicamente impeccabile ma umanamente difficile da condividere.
L’evoluzione del diritto va di pari passo con l’evoluzione della coscienza di un popolo e, talvolta,
direi, la precede!